Barare sulla natura “verde” di un prodotto può costare “solo” la perdita di fiducia da parte dei consumatori oppure una denuncia e una salata sanzione per pratica commerciale scorretta. Ecco quando, come evitarlo e, per chiarire bene, due esempi clamorosi di supercazzole (in)sostenibili.
di Marco Rotondo
Partiamo da una buona notizia: il 61% dei consumatori dichiara che il packaging e la sua sostenibilità sono importanti ai fini della scelta di un prodotto.
La cattiva notizia è che le aziende ovviamente vogliono cogliere questa opportunità ma – complici le ancora scarse conoscenze in materia e l’urgenza di agganciare il trend – si finisce per assistere a un’imbarazzante crescita esponenziale di affermazioni “green sounding” che finiscono per generare nel consumatore finale confusione e diffidenza. Della serie: “se tutto è sostenibile allora nulla è davvero sostenibile”.
Frutto di questa situazione è l’uso sempre diffuso del termine “greenwashing” che ormai ha acquisito un’accezione morale perdendo il suo significato legale.
Con questo articolo, quindi, vorrei chiarire come fare a capire se siamo di fronte a una reale affermazione fraudolenta, che rientra quindi nella normativa sul Greenwashing, oppure se siamo di fronte a quelle che io definisco “Super Green Cazzole” ovvero affermazioni fatte alla leggera, che suonano in qualche modo green o sostenibili ma che danneggiano in realtà più che le fa che chi le recepisce.
Cosa dice la norma
Vediamo quindi cosa dice l’Articolo 21 del Dlgs. 206/2005 (Codice del consumo).
«È considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppur di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.»
In particolare
Provvedimento n. 28060 del 20 dicembre 2020 AGCM.
«75. I cosiddetti claim ambientali o verdi (detti anche “green claims” o “environmental claims”) diretti a suggerire o, comunque, a lasciar intendere o anche solo a evocare il minore o ridotto impatto ambientale del prodotto offerto, sono diventati un importante strumento pubblicitario in grado di orientare significativamente le scelte di acquisto dei consumatori, sulla base della loro accresciuta sensibilità verso tali tematiche. Per tale motivo essi devono riportare i vantaggi ambientali del prodotto in modo puntuale e non ambiguo, essere scientificamente verificabili e, infine, devono essere comunicati in modo corretto.»
Chi può segnalare
Le segnalazioni possono essere fatte:
- dalla AGCM per sua iniziativa autonoma;
- da singoli consumatori;
- da concorrenti;
- da associazioni.
La sanzione
Articolo 27, comma 9, Dlgs. 206/2005 (Codice del Consumo).
«Con il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’autorità dispone, inoltre, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione.»
Come comunicare quindi in modo corretto le caratteristiche del packaging senza incorrere nel Greenwashing (quello vero… e molto costoso)?
5 regole per comunicare corretto
Per capire in che modo vada comunicata la sostenibilità ho coinvolto una professionista della comunicazione sostenibile, Elisa Sanna, che ha riassunto alcune regole base.
1. Prima fare, poi comunicare
Non può esserci comunicazione della sostenibilità senza sostenibilità. Quando usiamo questo termine non stiamo parlando solo di idee e valori ma di qualcosa di estremamente concreto e tangibile che coinvolge tutta l’organizzazione, a partire dal vertice aziendale che dovrebbe essere profondamente convinto del percorso che intende intraprendere o che sta già portando avanti. Solo in quel momento ci sarà qualcosa da raccontare, da misurare e rendicontare.
2. Cosa comunicare? Persone, Ambiente, Economia
La sostenibilità riguarda le persone che gravitano attorno all’azienda, dal personale ai fornitori alle comunità coinvolte; riguarda il luogo in cui si lavora e l’impatto che le attività hanno sull’ambiente; riguarda, ovviamente, anche gli aspetti economici e produttivi, fondamentali per la sopravvivenza stessa dell’azienda. Se si lavora sulla sostenibilità cercando di toccare tutti questi aspetti allora il gioco è fatto, il contenuto si crea automaticamente: storia e visione dell’impresa, attività e processi, persone, prodotti e servizi, obiettivi e risultati. Non c’è nulla da inventare, basta guardare quello che si fa e decidere come e a chi trasmettere il valore che si genera ogni giorno.
3. La Trasparenza paga
Oggi le persone sono più attente a ciò che acquistano ma anche molto critiche nei confronti delle aziende che si dichiarano “green” senza dimostrarlo chiaramente ed esponendosi al rischio greenwashing. Meglio, dunque, essere poco autoreferenziali e più concreti e trasparenti, utilizzando con parsimonia termini come eco, bio, sostenibile ecc., che vengono spesso utilizzati come sinonimi, alterandone il vero significato. Trasmettiamo piuttosto informazioni e messaggi chiari ed esaustivi, ma soprattutto attendibili, attraverso i tanti strumenti della comunicazione. Considerevole, a questo riguardo, la credibilità generata dalle certificazioni di enti terzi e dal bilancio di sostenibilità. Via libera alla creatività purché si appoggi sempre su dati e azioni verificabili, senza omissioni: ciò a cui puntiamo è la costruzione di una reputazione fondata su basi solide, non una pallida immagine “green”.
4. Non parliamo a qualcuno ma parliamo con qualcuno
L’interesse sui temi sostenibili sta crescendo sempre di più ma, allo stesso tempo, si rischia un overload di informazioni che può generare confusione, ansia, dubbi e paure. Compito della comunicazione è quello di fare chiarezza e organizzare i contenuti in modo da non disorientare le persone ma accompagnarle nel percorso di sostenibilità che prosegue di anno in anno rendendolo attraente e interessante. Per farlo è fondamentale coinvolgere i nostri stakeholder instaurando con loro un dialogo senza temere il confronto o le critiche. Mostrarsi aperti a domande e approfondimenti riduce le distanze e accresce la fiducia. Utilissimi a questo scopo i social media.
5. L’equilibrio tra creatività e basi scientifiche
Comunicare un progetto sostenibile spesso significa spiegare concetti complessi rendendoli più comprensibili e immediati, senza tuttavia banalizzarli. Come fare? Avviciniamoci alle persone a cui ci rivolgiamo: scopriamone i bisogni e le aspettative e parliamo la loro stessa lingua, riducendo al minimo i termini tecnici; decidiamo quale tono utilizzare nel nostro story telling in base all’obiettivo che ci siamo dati; utilizziamo canali e linguaggi diversi che non puntino solo alla logica ma soprattutto alle emozioni.
Nei due box sottostanti vediamo due casi emblematici, sui quali lascio ad ognuno la libertà di farsi la propria opinione.
“Ciao sono una bottiglia di carta”
L’azienda Coreana di cosmetici Innisfree ha messo sul mercato una bottiglietta apparentemente in carta che conteneva però al suo interno la classica bottiglia in plastica. A seguito della segnalazione di un consumatore che si è sentito “tradito e defraudato” dalla comunicazione dell’azienda la segnalazione è stata ripresa dal gruppo Facebook “No Plastic Shopping” e si è diffusa in tutto il mondo etichettando questo caso come un clamoroso esempio di Greenwashing. In realtà a me non risulta che sia stato sanzionato dalle autorità competenti ma rimane un esempio particolarmente chiaro di come una comunicazione poco accorta si possa trasformare in un boomerang mediatico.
“Mamma guarda, sono certificato”
Una certificazione che sta assumendo sempre più rilevanza è quella di ATICELCA che è in grado, attraverso prove di laboratorio, di certificare, su una scala da A+ a C il grado di riciclabilità di un prodotto, ovvero quanto scarto da conferire in discarica rilascerà il packaging durante la fase di riciclo. Anche un metodo così rigoroso tuttavia si presta a essere strumentalizzato senza alcuna responsabilità da parte dell’ente certificatore.
Di recente infatti una nota marca di pasta (non vi dico quale per evitare di passare i prossimi mesi in tribunale) è passata dalla classica confezione in PP a una confezione in multimateriale a base carta descritta come “riciclabile nella carta” il che è formalmente corretto. Nei comunicati che l’azienda ha emesso ha evidenziato “siamo certificati Aticelca”.
Andando poi a guardare più nello specifico in realtà ATICELCA ha certificato una riciclabilità di grado C: questo significa che il prodotto è sì riciclabile, ma che lascia un residuo da conferire in discarica dopo il riciclo che può arrivare fino al 40%. Quello che è davvero grave è che sul sito dell’azienda:
- non si dice quale valutazione è stata ottenuta ma solo che è stata effettuata la valutazione;
- il marchio Aticelca è riportato in modo generico senza precisare il grado C;
- nelle immagini dei pack riportate sul sito la C è scomparsa;
- sui pack reali la C è invece presente.
Un po’ come se io fossi tornato a casa da scuola proclamando trionfante “sono stato interrogato e ho preso un voto”, senza specificare quale e nascondendo con cura il mio 5. Non so voi ma io non l’avrei passata liscia.